Conquistare il K2 per poi scendere al campo base con gli sci, in onore del 70° anniversario della prima salita sulla vetta himalayana raggiunta da Achille Compagnoni e Lino Lacedelli.
Marco Majori e Federico Secchi ci hanno fatto rivivere le emozioni di questa grande avventura in occasione della conviviale di ottobre del Panathlon Club di Sondrio.
“Giovani ma con già parecchia esperienza, con la malattia dell’aria sottile”, come sono stati definiti dal socio Silvio Mevio, che ha introdotto gli ospiti dopo la consegna dei riconoscimenti ai soci con anzianità panathletica di 10 e 25 anni da parte del Presidente del Club sondriese Luigi Azzalini.
Diploma d’onore per Riccardo Tagni, Lucio Da Zanche, Enrico Damiani e ai fratelli Laura e Marco Gianesini.
Pergamena d’onore, invece, per Giuseppe Sgrò e Attilio Fumagalli, che hanno raggiunto i 25 anni di iscrizione al sodalizio.
Successivamente è stato presentato “Ski in the Sky”, il progetto che i ragazzi alto valtellinesi hanno diviso in 4 capitoli per raccontare la loro impresa.
Un viaggio incredibile nel cuore del Karakorum, in Pakistan, raccontato con tanta umanità e umiltà, perché come ha rimarcato Marco “quello che conta più di una spedizione è il rapporto umano che si crea con le persone, non tanto l’impresa in sé”, passando tra il ghiacciaio del Baltoro, il più grande al mondo – escluso Artide e Antartide – l’unico a non subire il processo di fusione che affligge le nostre risorse perché coperto da una coltre di detriti che lo riparano dai raggi solari.
Il primo capitolo si apre con i due alpinisti che, partiti la scorsa estate da Islamabad, hanno raggiunto le cittadine di Skardu e di Askole in jeep, per poi proseguire con trekking di 7 giorni per raggiungere i 5000 metri del campo base, definito “un adattamento climatico perfetto.” Il loro viaggio è stato raccontato con immagini e video che hanno reso chiaramente l’idea delle condizioni accidentate delle strade, con jeep che trasportano 30 persone, dove portatori camminano anche in ciabatte e i muli diventano fondamentali “perché riescono a portare anche 50 kg a testa, anche se alcuni muoiono perché straziati dal viaggio o perché scivolano sul ghiaccio”.
Il primo obiettivo, come cita il secondo capitolo, era il Broad Peak, una cima dal pendio più dolce da salire e scendere senza ossigeno, un nuovo acclimatamento per poi spostarsi sul K2. I filmati narrano i progetti per la scalata, il meteo da studiare, il recupero da non sottovalutare: tante le variabili da tenere in considerazione, e purtroppo le condizioni non ottimali hanno costretto la ritirata a 7000 metri: “La discesa non è stata granché per neve e visibilità – ricordano – considerando i 40° di media costanti, ma se si trova la neve giusta, è una discesa da antologia. Siamo tornati un po’ frustrati -hanno ammesso – ma consapevoli che dovevamo fare tutt’altro”.
Ed è così che si apre il terzo capitolo, denominato “L’ attesa al campo base”. I due alpinisti si spostano al campo base del K2, quella che è diventata la loro casa per ben 35 giorni.
“Per poter vivere bisogna star bene con sé stessi – ha ricordato Majori- altrimenti il tempo non passa più. Le condizioni erano complicate, è stata dura acclimatarsi in modo decente, ma per fortuna non eravamo soli, c’erano i francesi, la spedizione femminile del CAI oltre alla spedizione del CAI di Biella e quella della Commisione Scientifica del CAI”
Il meteo però non sembra voler dare tregua, e il tempo stringe: Agostino Da Polenza, capo spedizione, capisce che bisogna unire le forze ed è così che insieme ai valtellinesi si uniscono anche le ragazze della spedizine femminile, e alle 7 di sera si parte per il K2.
“Il progetto iniziale prevedeva la salita dalla parete nord e la discesa da quella sud -ha spiegato Majori – ma il meteo inclemente non lo ha consentito e così siamo scesi da dove siamo saliti.”
Inizia così il 4° e ultimo capitolo, ovvero il tentativo della vetta al K2. 4 campi dislocati ogni 600/700 metri di dislivello -campo 1 a 6000 metri, campo 2 a 6600 m, campo 3 a 7300m e infine il campo 4 a 7900 metri – ma è proprio sul finale che Marco e Federico rimangono soli: “Silvia Loreggian è stata l’unica a venirci dietro fino all’ultimo – ha ricordato Majori – e avrei voluto che anche il resto delle ragazze potesse perlomeno tentare l’assalto alla cima “. Ma a soli 200 metri dalla vetta, Marco rinuncia: la finestra di bel tempo si sta accorciando, l’ora inizia a farsi tarda e Federico prosegue solo: arriva in cima visibilmente commosso, mostrando il gagliardetto del CAI di Valfurva: “Mi è spiaciuto non arrivare insieme a Marco, eravamo solo noi due sulla montagna perché eravamo arrivati leggermente più tardi. Stava già diventando brutto. Il progetto è partito da me perché il mio sogno sarebbe stato di compiere la prima discesa italiana e seconda mondiale con gli sci, ma per farlo bisognava scendere dalla parete sud perch la parete di salita non lo consente, ci sono svariati punti in cui si è obbligati a togliere gli sci. “Sul collo di bottiglia ero da solo – ha continuato Federico – e sono stato costretto a scendere a piedi.”
I ragazzi hanno poi spiegato che la prima discesa integrale con gli sci risale al 2018, quando l’alpinista Andrzej Bargiel compie l’impresa mai riuscita prima, ma il polacco non riesce a documentarla totalmente. Da qui l’idea di Federico di compiere questa grande avventura: ripetere la discesa e filmarla in maniera integrale. Non a caso i due valtellinesi hanno deciso di ingaggiare un videomaker, Ettore Zorzini, che li ha seguiti durante il viaggio affinché potesse non solo immortalare immagini spettacolari, ma anche attraverso il drone, dal loro una prospettiva aerea diversa dalla semplice visione frontale.
“Per me è stato comunque un sogno tra amici – ha evidenziato Federico – non capita spesso di arrivare in cima da soli, soprattutto con il materiale pesante che avevamo con noi: dovendo scendere con gli sci, avevamo scarponi pesanti, ovviamente gli sci e attrezzature varie per un totale di 15 kg.”
Ma a rendere ancora più epica questa spedizione, è l’incidente subìto da Majori durante la discesa fra i campo 4 e 3: “Con la nebbia ho perso l’orientamento a 7600m – ha ricordato – e sono andato a destra verso dei seracchi. Qui sono finito in un buco dopo un volo di 8/10 metri, dove mi sono lussato una spalla. Inizialmente sono entrato nel panico, ma poi non so come sia successo ma è come se fossi entrato in un’altra dimensione, e sono stato invaso da una pace incredibile. Sono riuscito con le mie forze a uscire dal buco per poi raggiungere Federico, che mi ha aspettato addirittura 1h e mezza. In alta quota non è cosí scontato”.
Ricevute le prime cure dal compagno, Majori viene raggiunto anche dai francesi, allertati dallo stesso Federico: “I francesi sono saliti con grande coraggio e mi hanno aiutato a scendere – ha specificato l’alpino di Bormio – e dopo aver trascorso la 4^notte a 7000 m, il giorno successivo in 12 ore siamo scesi dal Campo 3 al campo base, dove mi hanno raggiunto con la barella per gli ultimi sforzi nonostante le mie gambe fossero ancora presenti”.
E il messaggio che ha lasciato Majori è forse ciò che spiega nel profondo il senso di questa spedizione: “Ritorno da questo viaggio consapevole di non aver subito una sconfitta, bensì un grande arricchimento dal punto di vista umano. La cosa più bella che mi lascia questa avventura è infatti la solidarietà che ho ricevuto, perché di solito in queste condizioni ognuno pensa per sé.”
E che non abbiano nemmeno loro pensato solo a sé stessi lo testimonia la dedica di questa impresa datata 29 luglio 2024 all’amico Lorenzo Holznecht – giovane alpinista, oltre che campione di sci alpinismo- che ha perso la vita nel 2023 proprio in un incidente in montagna.
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